Intervista di Fabrizio Lo Bianco
Sergio Toppi è nato nel 1932 a Milano. Negli anni '50 entra nel mondo dell'illustrazione lavorando per la UTET. Collabora poi con gli studi d'animazione Pagot per diverse campagne pubblicitarie. Negli anni '60 inizia la sua carriera di fumettista disegnando per il Corriere dei Piccoli le storie del Mago Zurlì su testi di Carlo Triberti. Su questa testata realizza però soprattutto storie belliche e di cronaca. Prosegue la collaborazione quando il giornale cambia il nome in Corriere dei Ragazzi nel 1972.
Dal 1974 lavora anche per il Messaggero dei Ragazzi diretto da padre Giovanni Colasanti. Qui il suo stile si personalizza e acquisisce caratteristiche che saranno peculiari del suo modo di disegnare fumetti: vero sacrilego per quegl'anni, Toppi viola i quadrati che delimitano le vignette precorrendo novità grafiche che erano di là da venire. Inizia un periodo fitto di collaborazioni. Queste le maggiori pubblicazioni per le quali realizza fumetti e illustrazioni: Sgt. Kirk, Linus, Alter Alter, Il Giornalino, Il Mago, Corto Maltese, L'Eternauta, Comic Art, Ken Parker, Nick Raider, Julia.
Inediti in Italia sono alcuni lavori realizzati per la Larousse in Francia e per la Planeta Agostini in Spagna. Le sue illustrazioni appaiono sulle pubblicazioni periodiche, sui quotidiani e sulle copertine di libri: da Famiglia Cristiana a Selezione dal Reader's Digest, dal Messaggero al Corriere della Sera, dai libri Einaudi a quelli della UTET. Ha disegnato, su testi di Enzo Biagi, il capitolo Americani della Storia dei popoli a fumetti della Mondadori. Tra i principali riconoscimenti ricevuti vanno ricordati nel 1975 il premio Yellow Kid e nel 1992 i premi Caran D'Ache e A.N.A.F.I.
Può parlarci degli anni della sua giovinezza? La guerra, la ricostruzione...
Ricordo malvolentieri gli anni della guerra. Io sono del '32 e la guerra l'ho subita in pieno. Ho vissuto sotto i bombardamenti su Milano. Poi dovemmo sfollare in Valdossola dove ci avevano detto che avremmo trovato un po' di tranquillità. Invece lì ebbi modo di assistere alle sparatorie tra partigiani e nazifascisti. Conobbi per la prima volta la paura di morire, furono anni di sofferenza e di fame. Ripeto, non li ricordo volentieri.
Nel dopoguerra c'erano sempre grosse difficoltà: mancava il cibo, la luce, ...uno dei ricordi più vivi, e più tristi, di quel tempo è il buio per le strade. C'era però qualcosa che ci spronava ad andare avanti: credevamo fortemente che il futuro sarebbe stato migliore. Progressivamente vedevamo le condizioni di vita migliorare, anche dal punto di vista materiale. Avevamo ciò che forse oggi manca ai giovani, ovvero il concretizzarsi delle nostre speranze.
Quale è stato il primo approccio col mondo del fumetto?
L'incontro con il fumetto è avvenuto su una bancarella, quasi per caso. Sfogliando un numero di "Asso di Picche" rimasi colpito dalla qualità dei disegni di due autori in particolare, Hugo Pratt e Dino Battaglia. Ero giovane e non avevo una grande cultura fumettistica. Qualche volta mi capitava di leggere "Flash Gordon", ma non ho mai avuto una passione viscerale per i fumetti, così come a tutt'oggi devo dire che non ne leggo moltissimi.
Come nasce lo stile Toppi?
Con molta fatica, attraverso un cammino lento. Sono autodidatta. L'unica esperienza in una scuola d'arte durò solo due anni, presso la "Scuola d'Arte del Castello", dove si andava di sera. Però ho cominciato negli anni Cinquanta a lavorare in uno studio dove si realizzavano disegni animati, quello dei fratelli Pagot. E' stato un periodo particolarmente utile perché coincise con il "boom" dei cartoni animati in Italia. Realizzavamo moltissimi lavori pubblicitari per la televisione. Io mi occupavo sia di sceneggiatura che di scenografia, il tutto, dati i tempi veramente pioneristici, in una libertà che ci consentiva di sperimentare tecniche nuove. Contemporaneamente ho iniziato a collaborare con alcune riviste settimanali come fumettista, partendo praticamente da zero.
Su quale rivista sono apparse le sue prime tavole?
Sul "Corriere dei Piccoli" intorno al '57-'58. Poi conobbi un sacerdote che dirigeva il "Messaggero di Sant'Antonio" che era il giornalino della parrocchia della basilica del Santo di Padova. A quel sacerdote, Padre Colasanti, devo molto. Per un certo periodo quel giornalino parrocchiale raccolse racconti di alcuni dei più noti fumettisti in Italia, lasciando grande libertà agli autori. Io di quella libertà ho beneficiato in particolar modo mettendo le basi per quello che poi è diventato il mio stile. È da allora che ho cominciato a disegnare senza tener conto dei quadrati che nel fumetto più ortodosso scandiscono il passaggio da una scena all'altra.
Questo superamento della suddivisione della pagina in "quadratini", che oggi ha fatto scuola, è una delle caratteristiche più apprezzate del suo modo di disegnare.
A dire il vero buona parte dei fumettofili lo considera un anatema. Chi critica questa mia impostazione delle pagine afferma che la sequenza narrativa viene meno. A me è piaciuto rompere questo schema e dare più rilevanza possibile alle scene principali.
Nella realizzazione delle tavole presto poi sempre particolare attenzione a come distribuire i balloons perché devono anch'essi contribuire a una disposizione equilibrata della pagina. Del lettering non mi occupo personalmente, rischierei di abbruttire la tavola. Preferisco che se ne occupino i professionisti di questo settore, che sono davvero bravissimi.
Che rapporto lega arte, fumetto e business?
Ci sono due piani da tenere separati quando si parla di fumetti: uno è quello commerciale e interessa soprattutto l'editore e potrei riassumerlo così "il fumetto, una volta realizzato, va venduto"; l'altro è quello "artistico", vale a dire che pur parlando di un prodotto comunque commerciale, parliamo però di una produzione che ha un quoziente artistico diverso da quello che può avere un chiodo o una pentola.
Io più in generale preferisco non utilizzare il termine "arte" perché innanzitutto trovo difficile definirla e in secondo luogo sull'arte ci sono delle idee molto difficili e confuse, estremamente soggettive. Preferisco fare un discorso di contenuti, di qualità. In fondo il ceramista che fa una scodella e la decora col suo pennellino con una linea intorno raggiunge un quoziente di creatività maggiore rispetto a un ceramista che lascia la scodella priva di decorazioni. È un criterio scalare: in cima alla scala ci sono i grandi artisti, talvolta incomprensibili alla persona normale e per questo irraggiungibili.
Lo stesso discorso vale per il fumetto: è indubbiamente un prodotto destinato alla fruizione commerciale ma in esso entra un certo quoziente di creatività, di senso estetico.
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